
Un mese di luci quello di febbraio. Un mese in cui tradizioni, storia e memoria si intrecciano dando vita a una lunga serie di festività con un unico comune denominatore, la luce.
Si parte dalla “Candelora” (dal latino candelorum "[festa] delle candele") una ricorrenza ufficiale nell’anno liturgico della Chiesa Cattolica, durante la quale si ricorda l’episodio della presentazione di Gesù al tempio, quaranta giorni dopo la sua nascita. La ricorrenza cade il 2 febbraio, giorno in cui si benedicono le candele, simbolo di Cristo “luce delle genti”. Da qui deriva il nome popolare della festività. Secondo la tradizione, queste candele benedette vengono accese nelle abitazioni davanti ad un’immagine sacra se qualche familiare, nel corso dell'anno, avrà problemi di salute.
Ma a parte il valore religioso, il giorno della Candelora rappresenta l’ultimo giorno dell’inverno, a condizione però, come recita un celebre proverbio, che “non piova e che non tiri vento”.
Dato che noi romagnoli dobbiamo sempre distinguerci, qui in Romagna le cose funzionano esattamente al contrario. La Candelora sancisce la fine dell’inverno soltanto se è un giorno di pioggia, di freddo o di neve. Insomma se è un giorno brutto. Ecco come diventa il proverbio in Romagna:
“Per la candlora, o ch’u piov o ch’u neva da l’inveren a sem fora; ma s’un piov, quaranta dé dl’inveren avem ancora”.
“Per la candelora che piova o che nevichi dall’inverno siamo fuori; ma se non piove o se non nevica quaranta giorni d’inverno avremo ancora”.
Il 4 febbraio, a Forlì, si festeggia la Madonna del Fuoco, patrona della città e della Diocesi. L’immagine della Vergine, una xilografia impressa su carta tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400, era posta sopra una tavoletta di legno appesa al muro di una scuola. La notte fra il 4 e il 5 febbraio del 1428 un incendio distrusse completamente l’edificio ma il fuoco lasciò miracolosamente indenne l’immagine di Maria. Pochi giorni dopo, i canonici della Cattedrale portarono solennemente in Duomo l’effigie del miracolo. Ancora oggi, la sera della vigilia, alle finestre e ai balconi delle case della città, vengono accesi i tradizionali lumini rossi.
La sera del 9 febbraio, in gran parte della Romagna e in particolare nel territorio ravennate delle Ville Unite, si festeggiava l’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849, quella di Mazzini-Armellini-Saffi, la cui Costituzione anticipò di quasi un secolo quella della Repubblica Italiana. I festeggiamenti consistevano sia nell’illuminare le case con delle piccole lanterne, originariamente in carta, spesso bianche, rosse e verdi, per simboleggiare la luce della libertà che illumina la notte, sia nel partecipare a un veglione e a una cena, la “cena nel cartoccio” (“la zena in tè scartoz”). Si trattava di un vero e proprio "banchetto patriottico" nato come momento di condivisione tra chi era unito dagli stessi ideali, senza distinzione di classe o cultura. Ognuno portava un “cartoccio” (in realtà si trattava di un grande fazzoletto di cotone detto “gulpè” o “ligaza”) contenente carne, pane e vino e lo socializzava con gli altri, a significare la grande coesione sociale che stava alla base dei valori repubblicani, in una festa che durava fino a notte fonda. Ancora oggi in Romagna, nei vari Circoli repubblicani e nelle tante case del popolo, si organizzano le cene del 9 febbraio ma di lumini non se ne vedono quasi più.
Al fine di riscoprire e valorizzare questa singolare festa laica del nostro territorio, Roberta Colombo del Teatro del Drago e Sabina Ghinassi dell’Associazione Culturale RavennArte, lo scorso 9 febbraio, hanno organizzato, grazie al contributo della Fondazione Museo del Risorgimento, un bellissimo laboratorio, rivolto ai bambini, consistente nella realizzazione di piccole lanterne tricolore, con barattoli di vetro riciclati e tempere, da esporre sui davanzali delle finestre. Il laboratorio, che si è svolto presso il Museo La Casa delle Marionette di Ravenna, è stato anticipato da un’affascinante narrazione tra mito e leggenda curata da Roberta Colombo, e si è concluso presso la Casa Matha le cui finestre sono state simbolicamente illuminate dai tradizionali lumini.
Gli ultimi tre giorni di febbraio (26-27-28) e i primi tre giorni di marzo (1-2-3), secondo la tradizione romagnola, sono i giorni del "lom a mèrz", giorni in cui si fa lume (luce) a marzo. Per le campagne e sulle colline verso sera si accendevano fuochi per fare lume alla primavera in arrivo e come manifestazione propiziatoria.
Tradizione pagana praticata prima dai Celti, antichi abitanti delle nostre terre, che ringraziavano le divinità per l'inverno che era passato, successivamente adottata dai Romani che accendevano fuochi in omaggio a Cerere, dea dei campi e delle messi.
In entrambi i casi, l’accensione dei fuochi era un rito magico e simbolico per propiziarsi le forze della natura in vista del risveglio della terra.
Una tradizione viva ancora oggi. Infatti, attraversando le campagne romagnole, tra la fine di febbraio e i primi di marzo, capita spesso di vedere all’imbrunire dei falò propiziatori in cui i rami secchi e i resti delle potature vengono bruciati per celebrare l’arrivo della primavera e invocare un’annata favorevole per il raccolto dei campi. Il tutto accompagnato da canti e balli intorno ai fuochi.
Un mese di luci, quello di febbraio, che ci ricordano antiche tradizioni alcune ancora vive, altre invece che vanno sapientemente rievocate e rinnovate affinché non vadano perdute. Luci che ci ricordano feste cristiane, memorie pagane e riti collettivi, luci per illuminare la notte che ricorda l’inizio della nostra libertà.
“Bianca come una pipa indiana
rossa come una lobelia scarlatta
magica come la luna a mezzogiorno
un' ora di febbraio”
Emily Dickinson
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