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Immagine del redattoreLaura Gramantieri

Tutti pazzi per i Rasponi


In questi giorni a Ravenna non si è fatto altro che parlare di palazzo Rasponi, grazie al “Rasponi Open Space” l'evento che ha chiuso il 2015, l'anno che ha incoronato Ravenna come Capitale Italiana della Cultura.

Grazie a questo evento, il nobile palazzo è diventato il contenitore di appuntamenti di ogni tipo: conferenze, concerti, mostre fotografiche, laboratori per bambini, arti performative.

A Ravenna oltre al bellissimo palazzo Rasponi dalle Teste, più che mai al centro dell'attenzione in questi giorni, vi sono almeno altri 8 palazzi, o ex palazzi, della famiglia Rasponi. In uno di questi è conservato un vero e proprio gioiello, il cosiddetto "appartamento napoleonico”, un appartamento principesco, in perfetto stile I Impero, da far invidia agli appartamenti parigini.

Quelle stanze, che oggi percorriamo per vedere una mostra piuttosto che un balletto, hanno in passato ospitato uomini e donne che nutrivano delle passioni, degli ideali. Stanze che hanno custodito segreti o sono state testimoni di eventi felici ma anche drammatici. Cosa rimane di quelle storie e di quei personaggi?

Tra i tanti eventi in programma nel nobile palazzo, ce n'è stato uno che ha avuto come protagonista proprio una esponente della famiglia Rasponi, Felicia.

Nata nel 1523 da Teseo Rasponi e Giovanna Fabri, Felicia fu costretta, molto giovane, alla vita monastica.

Di questa performance "in assenza" non svelerò nulla, perché va sperimentata in prima persona. Posso solo dire che mi ha lasciato una profonda pace interiore, catapultandomi, per pochi minuti, in un mondo lontano, che non c’è più. Quello di Felicia Rasponi, appunto.

Ma oltre a Felicia, chi erano questi Rasponi?

Antica e nobile famiglia dalle origini incerte (chi li vuole originari della Sassonia, chi di Forlì), i Rasponi si sono affacciati alla ribalta della scena politica e sociale ravennate dalla fine del Trecento per prendere il posto dei Da Polenta. Potenti e numerosi, i Rasponi fino al Settecento erano divisi in ben 8 rami.

Nel medioevo hanno sostenuto i ghibellini, conseguendo forti titoli onorifici. Il titolo comitale, ad esempio, gli è stato attribuito dall’Imperatore Federico III nel 1469.

Aderendo poi al partito guelfo, hanno ricevuto dai papi altrettante onorificenze, potere e prestigio. Tra il Quattrocento e il Cinquecento, i Rasponi sono diventati il braccio armato della Santa Sede: hanno aiutato i Legati Pontifici a cacciare i Veneziani dalle terre di Romagna e hanno combattuto molte guerre in nome del Papa, ad esempio contro gli Ugonotti e contro i Turchi. Questo perché i Rasponi erano una famiglia che contava tra i suoi membri numerosi uomini d’arme, coraggiosi e valorosi; per cui non solo il Papa ma anche molte città italiane ricorsero al loro aiuto per dirimere fatti di guerra. Nel Cinquecento, i Rasponi si sono macchiati di diversi delitti, nell’abuso del loro potere, accompagnati da saccheggi e devastazioni di beni, tanto che alcuni esponenti della nobile famiglia sono stati cacciati in esilio.

Questo uso spregiudicato del potere, spesso avallato dal beneplacito della Chiesa, li portò ad essere nel Cinquecento i veri padroni della città.

La potente famiglia Rasponi, attraverso i secoli, ha accumulato case, palazzi, castelli e rocche in un contesto difficilmente superato da altre nobiltà. Tra i suoi membri si annoverano cardinali, condottieri, accademici, ma anche criminali e scialacquatori di patrimoni.

Essendo i Rasponi numerosissimi, non è possibile qui passarli in rassegna tutti, mi limiterò ad alcuni esponenti le cui storie mi sembrano più intriganti di altre.

Partiamo proprio dalla famiglia di Felicia. La madre di Felicia, Giovanna Fabri, vedova di Teseo Rasponi, doveva essere una donna non proprio amorevole, poiché costrinse la figlioletta, di soli quattordici anni, a una vita di clausura nel Monastero di Sant’Andrea, sebbene Felicia avesse tutt’altre aspirazioni. Una vera leonessa questa Giovanna, che infatti, nel 1541, fece ristrutturare completamente il palazzo di famiglia ubicato nella guaita di San Pier Maggiore (tra le attuali vie Corrado Ricci e Guido da Polenta) conferendogli un aspetto austero da vero e proprio fortilizio. La ristrutturazione prevedeva un angolo fortificato, chiamato poi Torre di San Francesco, e piccole torricelle laterali sorrette da barbacani, contro la cui edificazione i nemici dei Rasponi si appellarono al governatore di Romagna, Mons. Giovanni Del Monte, poi Papa Giulio III, il quale autorizzò comunque la prosecuzione dei lavori essendo amico di Giovanna e del figlio, il Capitano Cesare. La torre e le torricelle laterali sono poi scomparse, ma si possono ancora immaginare dove oggi è il balconcino d’angolo (sto parlando, per intenderci, del palazzo che oggi al piano terra ospita la Ca' de Vèn). Perché questa necessità di un angolo fortificato? Perché il Cinquecento ravennate è stato costellato di numerosi fatti di sangue, quindi la fortificazione del palazzo poteva avere un senso e la torretta poteva fungere da punto di avvistamento. I Rasponi, potenti quanto criminali, avevano infatti molti nemici. E Giovanna fu, per l'appunto, molto accorta tanto da trasformare la sua dimora in un vero e proprio fortino.

Veniamo, quindi, al conte Girolamo Rasponi, tristemente noto in qualità di mandante del massacro della famiglia Diedi, avvenuto il 29 gennaio del 1576. Originari di Venezia, i Diedi risiedevano in una bella palazzina in perfetto stile veneziano (lungo l’attuale via Raul Gardini) prospiciente il palazzo di Girolamo (l’attuale Palazzo Vitelloni, il cui ingresso è sull’odierna via Guerrini). Questa vicinanza dava adito a frequentazioni obbligate fra le due famiglie, sguardi indiscreti dalle rispettive finestre, incontri sulla strada, colloqui davanti le porte. A causa di queste continue frequentazioni, Bernardino Diedi si innamorò dell’avvenente Susanna Succi, nipote di Girolamo. I due giovani, in breve tempo, convolarono a nozze e dall’unione nacque subito una bambina. Girolamo, dal carattere estremamente sanguigno, non gradì per nulla questo matrimonio, risentito del fatto che Bernardino, prima di invaghirsi dell'affascinante Susanna, avesse già frequentato intimamente una delle sue sorelle. Così, il conte, che non poteva tollerare tanta sfrontatezza, meditò la tremenda vendetta. Con i suoi scagnozzi, la notte del 29 gennaio, irruppe nel palazzo dei Diedi e trucidò ben sette membri della famiglia, tra cui Bernardino, ma anche la nipote Susanna che non fu risparmiata sebbene in avanzato stato interessante. Dalla strage si salvarono solo la balia e la primogenita di Susanna e Bernardino, pare perché nascosta sotto una “mastella”. Il Papa, Gregorio XIII, pretese l’immediata demolizione del sontuoso palazzo di Girolamo Rasponi, che avvenne nel giro di pochi giorni. Era costume, in quel tempo, demolire le proprietà dei condannati e degli assassini. Sulle rovine fu sparso il sale a monito che nulla vi dovesse sorgere. Venne messa una taglia sul Rasponi e sui suoi complici, molti dei quali furono rintracciati nei mesi successivi, processati e giustiziati. Girolamo e i suoi eredi si rifugiarono a Ferrara e solo dopo 14 anni di esilio ottennero di poter tornare a Ravenna.

L'aspetto più curioso di questa triste e sciagurata vicenda, è che nel giardino e in alcuni ambienti di Palazzo Vitelloni, che sorge sui resti dell’antico palazzo del famigerato Girolamo, ho trascorso parte della mia infanzia. Palazzo Vitelloni, infatti, nel 1868, fu acquistato dalla Banca d’Italia che costruì la nuova sede dell’istituto di credito nel terreno retrostante, dove un tempo erano gli orti, e il palazzo divenne così la dimora dei vari direttori e di alcuni dipendenti dell’istituto di credito. Due miei compagni delle scuole elementari risiedevano, con le rispettive famiglie, in questo monumentale palazzo, per cui le frequentazioni erano assidue per feste, compleanni, ritrovi tra amichetti. Pensare che quei luoghi, che io collego a ricordi felici e del tutto spensierati, siano stati in passato lo scenario di maldicenze, di intrighi e di veleni mi lascia un leggero brivido lungo la schiena.

Da un bruto, come Girolamo Rasponi, passiamo ad un personaggio da fiaba: Augusta Rasponi Del Sale, detta Gugù. Figlia del conte Lucio e della nobildonna Amelia Campana, di origini bolognesi, la contessina Augusta avrebbe potuto condurre una vita di agi per il nome che portava; ma il lusso e la mondanità non erano per lei. Gugù aveva due sole grandi passioni: il disegno e l’amore per i bambini, in particolare per i bambini infelici, quali gli orfani, i malati, i figli di ragazze madri. Per soccorrere ed aiutare i bambini più disagiati, Gugù si privò di quasi tutto il patrimonio di famiglia. A Ravenna diresse l’opera dei figli dei carcerati e fu presente in tante altre attività assistenziali.

Gugù amava anche il disegno e debuttò come illustratrice nel 1898 con un calendario dove i protagonisti erano ovviamente i bambini. È nota la sua collaborazione col Giornalino della Domenica e col Corriere dei Piccoli. I suoi libri, “Tur-Lu-Ri” e “Mother Duck’s Children”, sono stati pubblicati a Parigi e a Londra. Ed è proprio in questa città, presso il Victoria and Albert Museum, che sono esposti alcuni suoi disegni. Ma né la fama, né le critiche favorevoli convinsero Gugù a trasformare il suo talento in un vero e proprio lavoro che per lei rimase un semplice passatempo. I suoi pennelli erano anche strumenti per educare le madri a una sana puericultura. Disegnava bambini immersi in salutari bagnetti caldi, neonati vestiti di pannolini morbidi e puliti e non avvolti in strette fasce. E ancora bambini all’aria e al sole, sui prati e sulle spiagge. L’oca diventò uno dei personaggi più frequenti di tanti suoi disegni. Questo animaletto, simbolo di scarsa intelligenza, divenne, grazie ai suoi pennelli, un personaggio amorevole e protettivo.

Ormai priva di tutti i suoi beni, Augusta si ridusse a vivere in un'umile stanza della sua casa di via D’Azeglio, con pochi e modesti mobili, spegnendosi una mattina del 1942 silenziosamente come era vissuta.

Concludo questo racconto su personaggi ravennati del passato tornando al presente.

Sono reduce da un workshop al Museo d’Arte della Città sulle strategie di sviluppo del turismo. Il tema intorno al quale si è discusso è stato come portare più turisti in città e, soprattutto, come trattenerli più a lungo.

Se si vuole sdoganare un'immagine nuova di Ravenna, che non sia legata esclusivamente al mosaico, la strada da percorrere è tutta in salita. E quello che manca, nella nostra città, è una regia comune in ambito di turismo e cultura.

Le istituzioni dovrebbero far passare il messaggio che Ravenna merita una visita approfondita, di più giorni, perché al di là del mosaico, c'è tanto altro da fare e da vedere. I numerosi palazzi Rasponi sono soltanto un esempio.

Pensiamo ad una personalità come Lord Byron, interessato non ai mosaici quanto piuttosto alle pinete e alla figura di Dante.

La stessa iniziativa di questi giorni, il "Rasponi Open Space", come già il "Darsena Open Show" dello scorso luglio, sono eventi che seppur meritevoli e interessanti rimangono dei tasselli isolati perché ciò che manca a Ravenna è una programmazione a lungo termine. Palazzo Rasponi dalle Teste non dovrebbe essere aperto solo in occasioni particolari, quelle tre o quattro volte all’anno, ma dovrebbe essere sempre aperto e fruibile sia dai cittadini sia dai turisti, così come la Darsena dovrebbe essere riqualificata una volta per tutte, invece di essere il fulcro di manifestazioni temporanee della durata di una o due serate.

Finché non ci sarà una strategia comune sarà inutile discutere di come diventare più competitivi rispetto ad altre città d'arte.

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